Mecenatismo e impresa, il patto fra pubblico e privato che fortifica il nostro patrimonio culturale
ROMA – Un tempo erano i sovrani, gli aristocratici e i papi, governatori della Chiesa cattolica, i veri mecenati dell’arte. Coloro che potevano vantare nei loro libri paga i nomi dei migliori architetti e artisti dell’epoca. Solo per citare il Medioevo, dal Vasari al Bellori esiste una fitta e dettagliata storiografia degli artisti più influenti e prestigiosi di un Rinascimento ricchissimo e fecondo per l’arte italiana. Committenti facoltosi sono stati i fautori di una “politica” tutta a sostegno delle attività artistiche che favorivano e stimolavano il senso della materia che prende forma in un contesto estetico armonico ed in pieno equilibrio con lo spazio circostante; una sorta di architrave che legava la bellezza al potere.
Di fatto, tutto questo fiorire di interessi collegati all’arte, creavano e sostenevano un indotto molto vivace sotto il punto di vista economico per tutta una serie di maestranze che, alle direttive di artisti ed architetti di fama, hanno alimentato una economia sempre più florida e specializzata. Se Tiziano Vecellio, specialista del nudo, di soggetti mitologici e di ninfe, è considerato come l’artista più ricco di ogni tempo (oltre che uno dei più longevi), non vi è dubbio di quanto la spinta artistica e culturale abbia caratterizzato quel periodo, rendendolo fra le attività più richieste e proficue degli ultimi secoli.
Ma i tempi cambiano, così come le mode e la politica delle società moderne, anche se il richiamo dell’arte e della cultura, non hanno mai smesso di incarnare quel valore universale che tutti conosciamo. Una presenza, quella dell’arte in Italia, alla quale siamo abituati a convivere spesso con troppa disinvoltura, soprattutto nei luoghi e nelle città italiane dove i simboli architettonici fanno da richiamo ad una storia che reclama il diritto di essere riscoperta e rianimata. Magari attraverso un percorso di rivalutazione, indispensabile per consentirle una proiezione anche nel futuro.
Ecco allora che, mai come oggi, il connubio fra parole come “Arte e Impresa” diventa l’apripista per un rinnovamento epocale di un modo di riscoprire e vivere l’arte attraverso una chiave di lettura in grado di ritrovare la sua giusta collocazione in un prospetto aggiornato e redditizio, ma non certo nuovo. Proteggere, gestire, valorizzare: sono stati questi i temi al centro di interessanti dibattiti organizzati al MAXXI di Roma in occasione di Arte e Impresa, il convegno organizzato Minerva4Art, società che opera nel settore della valorizzazione culturale con il patrocinio del Ministero dei Beni Culturali e del Turismo e il Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Mecenatismo sostenibile
La rappresentanza sulla scena nazionale di tre fra i più famosi brand nazionali, come Assicurazioni Generali, Eni SpA e Fondazione Tim, nell’ambito del mecenatismo dei beni culturali, ci aiuta ad introdurre quelli che sono i valori aggiunti legati ad iniziative che si interfacciano in modo diretto con quello che è l’annoso problema del recupero e della salvaguardia del patrimonio artistico e culturale nazionale. L’esempio virtuoso che ci racconta la storia del progetto del Palazzo delle Assicurazioni Generali di piazza Venezia a Roma, che sorge a pochi metri dalla Colonna Traiana e dai Fori Imperiali, è quello di un bene architettonico dei primi del Novecento del secolo scorso (la costruzione fu inaugurata nel 1906), al cui interno si è pensato di valorizzare la raccolta di cimeli ed elementi monumentali ritrovati durante le fasi scavo delle fondamenta del Palazzo.
L’edificio della Compagnia – progettato da Giuseppe Sacconi – che sorge di fronte al palazzo quattrocentesco che dà il nome alla piazza, possiede al suo interno un museo che rappresenta un’occasione preziosa per studiare e documentare la ricchezza di culture e vicende che avevano animato l’area tra il Foro di Traiano e le pendici del Campidoglio. Ma non è solo questo, così come sostiene con un malcelato orgoglio Emma Ursich, brand manager di Generali Assicurazioni, che aggiunge dicendo che «Generali condivide “valore e cultura” anche a sostegno delle mostre locali, puntando su quelli che sono i simboli per antonomasia dell’arte stessa come testimonianza del passato per il futuro; attraverso la collezione di tele di grandi artisti come ad esempio quella portata per l’occasione, e che domina sullo sfondo della sala Scarpa del convegno, ad opera di Giovanni Colacchi, dal titolo Battitura del grano del 1928».
Anche il restauro dell’antica basilica di Santa Maria di Collemaggio, l’edificio caro agli aquilani anche per la tradizionale festa della Perdonanza celestiana, passa attraverso il restauro di una società per azioni come Eni. Un recupero di un simbolo del patrimonio storico abruzzese, costato 14 milioni di euro, che a seguito del sisma del 2009 venne segnato da gravi crolli delle navate interne e dalla distruzione dell’antico organo a canne del XVII secolo. La basilica, famosa anche perché riparo delle spoglie di Celestino V e custode della Porta Santa – il sacerdote Pietro da Morrone che condusse vita eremitica prima di diventare papa nel 1294, e citato nell’Inferno fra gli ignavi della Divina Commedia come «colui che per viltade fece il gran rifiuto» – è un esempio di recupero andato a buon fine, nell’ambito di una realtà urbanistica ancora segnata dalle ferite di un terremoto, le cui crepe insanabili sono nell’apparato burocratico e organizzativo dello Stato.
Timori, quelli sul rispetto dei tempi sulla tabella di marcia dei lavori di restauro e ricostruzione, che hanno attraversato anche l’ente mecenate che, assieme alla Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio, hanno riconsegnato al territorio aquilano e al patrimonio culturale un pezzo di storia che rischiava di andare perduto per sempre. Mattia Voltaggio, brand communication manager di Eni, sottolinea «Abbiamo raggiunto un obiettivo che ci rende orgogliosi, grazie anche ad un progetto al quale abbiamo dedicato tempo ed energie, monitorando con un certo impegno e una certa attenzione ogni fase di lavorazione. La cerimonia di inaugurazione, che ha segnato quella che possiamo definire una “nuova vita” della Collegiata, ci ha regalato anche qualche emozione condivisa con la popolazione aquilana».
È interessante entrare nella consapevolezza che il mecenatismo di molte realtà di grande successo economico, non vive solo sulla spinta di incentivi per la deducibilità dal reddito d’impresa, come il l’Art bonus, che ha prodotto oltre 100 milioni di donazioni a partire dalla sua prima applicazione di fine 2014. Aziende come Eni, ad esempio, conservano una tradizione nella vocazione con l’arte che ha radici con il suo fondatore, l’imprenditore illuminato Enrico Mattei, innamorato dell’arte e grande amico del gallerista milanese Bruno Grossetti «con il quale intratteneva una sincera amicizia, quando Mattei scendeva dal suo ufficio di via dell’Annunciata a Milano e si rifugiava nella galleria Grossetti che esponeva opere di grandi firme quali Modigliani, Picasso, Sironi, Boccioni, De Chirico, De Pisis» racconta Mattia Voltaggio nello snocciolare i tratti salienti della storia dell’azienda che rappresenta; fondata da un imprenditore capace di suggestionarsi fino al punto di perdersi nelle sfumature e attraverso le prospettive, a volte malinconiche, di un olio su tela che diventava la metafora di se stesso, come avveniva per Omaggio a Fattori di Filippo De Pisis del 1933.
Sono sette le opere della collezione della Eni Museum a firma dell’artista De Pisis, che fu anche scrittore e critico. Stile e atmosfere che sulla tela rivelano una influenza della corrente impressionista, probabilmente frutto dei soggiorni parigini di De Pisis, e delle frequentazioni personali con Matisse. Un amore, quello di Mattei nei confronti delle opere dell’artista e intellettuale ferrarese, che fu quasi virale, almeno nei suoi primi acquisti, che raccontano di una ricerca interiore nei confronti dell’arte che cresce quasi parallelamente ai successi nel mondo dell’industria; attraverso «passaggi quasi sempre avventurosi, a volte coperti da un velo di mistero» come racconta una delle tante biografie sull’uomo che ebbe a sfidare i poteri e gli interessi delle Sette sorelle, le compagnie che per un trentennio, a cavallo fra gli anni Quaranta e Settanta, detenevano il controllo del mercato mondiale del petrolio.
Ma a rilanciare il tema della valorizzazione del patrimonio culturale attraverso sinergie sempre più strutturate tra pubblico e privato c’è anche la Fondazione Tim, che a Roma è impegnata nel recupero del Mausoleo di Augusto. La Fondazione, nata nel 2008 e ramo del Gruppo Telecom Italia, ha devoluto sei milioni di euro per il recupero di un’opera che in un passato più recente è stato il più grande auditorium d’Europa; più due milioni per la valorizzazione del cantiere, con l’installazione permanente di 300 metri di fondali luminosi interattivi posti sulle cesate dell’intero perimetro dell’attuale fabbrica di uno dei simboli dell’antica civiltà imperiale di Roma.
Azioni di mecenatismo di tipo strategco, indispensabili per dare impulso all’arte e alla sua nuova vita proiettata al futuro. Ne è portavoce Luca Josi, direttore brand strategy e communication di Tim, pronto a sottolineare che «la nostra Fondazione, che incarna la cultura dell’innovazione, si pone come valida e concreta alternativa al superamento di logiche di conservazione strumentale della cultura moderna. Se i monumenti antichi non trovano una “funzione” che possa offrire loro una connotazione contestuale, sarà difficile che arrivino fino ai nostri giorni». Il Mausoleo di Augusto, l’imponente monumento funerario del I secolo a.C. che si compone di una complessa struttura a piani sovrapposti, ha registrato l’attraversamento temporale di numerose vite, diventando caleidoscopio di se stesso, di civiltà e di cultura.
Il concetto romantico, e al contempo pragmatico, di Luca Josi, non può che destare curiosità e interesse rispetto all’impegno di rispolverare la storia per «creare passione rispetto ad un luogo: diventare “ruffiani” rispetto alla curiosità delle persone».
La metà dei musei italiani non ha un sito web
Se è vero che esiste una certa energia da parte di enti privati nel recupero di beni culturali, è altrettanto delundente constatare un certo arretramento da parte dei poli museali italiani per quanto concerne l’adeguamento ai moderni sistemi di promozione interattiva, soprattutto nei confronti del digitale e della diffusione di informazioni sulla Rete. Se le ultime statistiche divulgate dal Ministero dei Beni culturali ci informano che nel primo semestre del 2017 gli ingressi a monumenti e aree archeologiche, patrimonio dello Stato, sono saliti a 23 milioni di persone – con un incremento di 2 milioni di visitatori rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente e un fatturato che sfiora gli 89 milioni di euro – è d’obbligo domandarsi il motivo di tale grave indifferenza nei confronti di un adeguamento strategico e strutturale come quello certificato dalla dottoressa Nicolette Mandarano, digital madia curator Gallerie nazionali di Arte Antica Barberini Corsini, che ammette senza riserve che «il 50% delle istituzioni culturali in Italia sono sprovviste di siti web».
Molti musei italiani non sono attrezzati. Un livello di arretratezza che li porta agli ultimi posti nella classifica degli standar internazionali. Un grado di obsolescenza delle tecnologie che «finiscono per sbarrare la strada alla creazione di contesti narrativi multimediali in grado di creare appartenenza» riprende Nicolette Mandarano. Se è vero che il bacino artistico e culturale nazionale può vantare su un patrimonio inestimabile, senza confronti al mondo, esiste la paradossale contraddizione di un Paese che non è capace di fare sistema. Che non ha ancora capito quanto sia importante un adeguamento “sociale e culturale” al fenomeno della cultura e del turismo in Italia.
Occorrono profili professionali adeguati, esperti di comunicazione che siano in grado di «tenere al centro due punti fondamentali: l’Opera stessa e “chi la guarda”», commenta Nicolette Mandarano, esperta in comunicazione digitale, che punta tutto sull’adeguamento ai sistemi tecnologici al sistema museale, attraverso strumenti mirati, anche se non eccessivamente invasivi. «Bisogna saper comunicare in modo “inclusivo”», quindi in modo esperto, valutando ogni dettaglio, dall’uso corretto delle didascalie alle font; quindi anche al tipo di carattere che si utilizza nei totem o nei tavoli interattivi, quando quest’ultimi sono presenti o funzionanti.
Tutto quello che è il supporto all’arte in Italia, attende un salto di qualità, e un adeguamento ai moderni sistemi digitali, da Internet al wifi, capaci, a loro modo, di creare cultura e opportunità di nuove esperienze, perché i valori culturali come l’arte sono autoassertivi.
Un planet di primissimo livello, quello organizzato al MAXXI di Roma dal Minerva4Art, moderato da Francesco Lener, e al quale hanno partecipato anche lo storico dell’arte Claudio Strinati, già soprintendente per il Polo museale romano dal 1991 al 2009; Anna Maria Marras, di Icom Italia; Carolina Botti, direttore per i progetti di finanziamento di Ales SpA; Laura Moro, direttore di Iccd; Laudio Bocci, direttore di Federculture e Mauro Severi, presidente Unindustria Reggio Emilia.
Massimo Manfregola – giornalista
20/1/2018
Nella foto di copertina: Johann-Zoffany, La veduta della tribuna degli Uffizi (affresco ad olio 1772-1777)
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