Quanto ci costa la guerra del diesel fra scandali e vincoli in un clima denso di contraddizioni
ROMA – Quanto abbia influenzato lo scandalo del Dieselgate del 2015 sulla decretata condanna ai motori diesel non saremo mai in grado di certificarlo con certezza. Ma per capire i risvolti di rigidissime normative ecologiche che l’Europa ha fatto sue, per ridurre drasticamente l’utilizzo del diesel in Italia, ed in particolare in alcune regioni come Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte e Veneto, in merito ad un accordo fra il Ministero dell’Ambiente e le regioni, bisogna fare necessariamente qualche passo indietro.
Questa rivoluzione, che attraversa in modo trasversale tutto il mondo dell’automotive, parte da lontano, dagli Usa, e precisamente dall’Epa, l’agenzia per la protezione dell’ambiente americana (creata dal presidente Nixon nel 1970 per verificare le leggi approvate dal Congresso) che denunciò la Volkswagen per aver truccato, attraverso un algoritmo, quelli che erano i dati relativi al livello delle emissioni di ossido di azoto del motori 2.0 TDI a seguito della vendita sul mercato di 11milioni di autovetture.
Il raggiro fu scoperto nel 2013, quando l’Icct, l’International council on clean transportation – una no profit che si pone l’obiettivo di migliorare le performance ambientali e l’efficienza nei trasporti per il bene della salute pubblica – concludeva un test in Europa per approfondire i parametri di efficienza nel rispetto ecologico di alcuni fra i più blasonati “diesel puliti”.
I funzionari dell’agenzia no profit, di cui molti dei quali ex dirigenti di Epa, non soddisfatti dei test effettuati in Europa, decisero di testare un campione di queste motorizzazioni “leggere” in condizioni reali, servendosi di specialisti della West Virginia university. Vollero verificare se a 70 miglia all’ora le emissioni, in condizioni di migliore efficienza del motore, si riducevano in modo drastico rispetto a quelle misurate nelle situazioni di traffico urbano. Ma quelle dei motori Volkswagen annunciavano alcune contraddizioni rispetto alle statistiche comparate con presupposti di semi-staticità: le emissioni di ossido di azoto erano superiori anche di 40 volte rispetto ai limiti di legge.
Il Dieselgate e l’arresto di Rupert Standler
Lo scandalo coinvolse i vertici della Casa di Wolfsburg, scatenando un terremoto finanziario dei mercati e delle poltrone, di cui quella dell’amministratore delegato della Casa tedesca Martin Winterkorn: l’artefice del successo commerciale di ben 10milioni di auto vendute con quattro anni di anticipo sugli obiettivi.
Il caso delle emissioni contraffatte sfiorò molte altre Case automobilistiche prestigiose, ma demolì con danni irriducibili, la solida immagine di un’azienda leader nella costruzione di automobili in Europa, che conta 12 marchi, 600mila dipendente, 119 impianti e 200 milioni di euro di fatturato.
Nel giugno del 2018 viene arrestato il ceo di Audi, Rupert Standler, nella sua casa di Ingolstadt. È accusato di frode. In totale sono 20 le persone indagate dalla procura di Monaco di Baviera, perché sospettate di essere coinvolte nella vendita di auto dotate di software che disattivava i controlli nelle emissioni durante la guida.
Ad inizio dello stesso mese l’Agenzia federale aveva ordinato il richiamo di 60mila Audi A6 e A7 dopo la scoperta dei dispositivi definiti illegali.
Gli Usa e la discriminazione dei motori diesel
Ma ritorniamo negli Usa, dove la presenza dei modelli da turismo con motori a gasolio è circa il 3% delle immatricolazioni. Contro le statistiche del Vecchio Continente, dove più della metà delle immatricolazioni viaggia su autovetture a motore diesel. Ma il motivo di tutto questo non è casuale.
In Europa la scelta di espandere le motorizzazioni diesel appartengono ad un vincolo europeo legato alle politiche ecologiche sui gas ad effetto serra, durante gli anni Novanta. Mentre l’Europa poneva dei limiti per quanto concerne l’emissione nell’aria di monossido di carbonio (CO2), responsabile del surriscaldamento globale, gli Usa dichiaravano guerra all’ossido di idrogeno (NOx), uno dei precursori delle piogge acide.
I vincoli stringenti attorno ai motori diesel e lo scandalo esploso con il Dieselgate, determinano un scelta drastica da parte di alcuni colossi automobilistici, almeno in Europa. Case come Volvo, Porsche, Toyota e Fca, annunciano che entro il 2022 non produrranno più autovetture a gasolio. Proprio la Toyota, il grande marchio giapponese, ha deciso di finanziare il settore delle auto elettriche con il lancio di 600 milioni di euro di green bond, vale a dire titoli di debito acquistati dai risparmiatori che permetteranno al colosso nipponico di fare investimenti nel settore dei veicoli che rispondono a certi criteri ecologici nel rispetto delle emissioni di CO2. In questo settore finanziaro c’è poi la Cina (che ha superato gli Usa per emssioni di Co2 nell’aria), leader per quanto riguarda la rimessa di gree bond con 11,7 miliardi di dollari.
Politiche ecologiche disgiunte sui gas inquinanti e la soluzione della Bosch
Ma esiste un paradosso nelle politiche ecologiche disgiunte dei due continenti. I motori diesel emettono meno gas ad effetto serra rispetto a quelli a benzina, così come quelli a benzina producono meno ossidi di nitrogeno rispetto ai cugini diesel. Entrambi nei loro cicli emettono gas inquinanti, ma solo nei confronti dei motori diesel (quelli protagonisti di una grossa fetta di mercato in Europa), e per giunta più efficienti per costi e consumi, oltre che per inquinamento, si è stati così intrnsigenti, al punto da decretarne la loro morte ufficiale.
Infatti, nonostante sia stato messo ufficialmente fuorilegge da parte di istituzioni governative e amministrazioni locali, molti costruttori credono nell’efficienza e nel potenziale del motore diesel. Se il punto critico di questo propulsore, diffusissimo in Europa, sono gli ossidi di azoto, una soluzione arriva dalla Bosch, l’azienda da 78miliardi di euro con 402mila dipendenti.
Grazie ad una raffinata e innovativa tecnologia, la Bosch ha messo a punto un sistema che, applicato ai motori diesel, è capace di abbassare la soglia delle emissioni nocive al di sotto di quelle che entreranno in vigore nel 2020.
Ma le politiche ecologiche emanate e sottoscritte senza che gli stessi politici abbiano una certa concretezza in materia, possono creare grossi danni a livello sociale ed economico, con dirette ricadute anche sugli obiettivi prefissati, disseminando di incognite i risultati che si vogliono raggiungere.
La guerra al diesel ricade sull’economia italiana oltre ad un danno per le famiglie
Bruxelles vuole ridurre le emissioni di anidride carbonica del 35% entro il 2030; quindi di una media di 95 grammi a chilometro da raggiungere nel 2021.
In Italia alcune aziende legate all’indotto del gruppo Fca (Fiat Chrysler Automobiles) per quanto riguarda gli apparati dei motori diesel, come quelle di Cento (Ferrara), Pratola Serra (Avellino) e quella della Bosch a Modugno (Bari) potrebbero correre il rischio di chiudere i battenti.
La stessa Volkswagen ha fatto sapere che raggiungere gli obiettivi imposti dalla Bruxelles significa sul piano dell’occupazione una perdita di 100mila posti di lavoro, in un settore che in Europa conta una fetta di occupazione complessiva pari all’11 per cento.
A rischio dunque la sostenibilità del settore legato all’automobile, costretto ad una trasformazione verso l’elettrico che non solo condiziona scelte politiche e sociali nella piattaforma comunitaria e dei singoli stati dell’Unione europea, ma che incontra importanti contraddizioni anche per quanto concerne gli obiettivi legati all’ecologia, perché a parte i costi elevati di produzione dell’energia elettrica, ancora molto dipendenti da quella fossile. Basti pensare che solo in Italia i due terzi dipende dalle centrali termoelettriche che bruciano combustibili fossili, mentre in tutta la Ue è di tre quarti dell’intero fabbisogno energetico. È dunque evidente che la conversione all’Elettrico sulle automobili, oltre ad essere costosissimo, sposta solo il problema dell’inquinamento, ma non lo risolve.
Quindi, quali reali prospettive esistono in Italia e in Europa di trasformare la mobilità attuale verso l’auto elettrica se i costi di produzione dell’energia sono vincolanti a quella fossile per la produzione di energia dell’intera rete di gestione?
Per non parlare del danno economico causato alle aziende che dovranno modificare sostanzialmente la loro linea produttiva, il marketing, e poi l’elettrificazione di apposite banchine per il rifornimento energetico delle auto, per ogni città, strade e autostrade. Il danno per gli utenti costretti a cambiare un auto che ancora potrebbe essere efficiente, per non dire ecologica, se si utilizzasse il sistema brevettato dalla Bosch. E poi bisognerebbe affrontare il problema del riciclaggio delle costosissime batterie per l’auto e, non ultimo, la richiesta massiccia di materie prime nobili indispensabili per alcune componenti elettroniche, e quindi l’approvvigionamento di materiali ad alta conduzione. Come conseguenza di questa incalzante richiesta dell’industria elettronica esiste anche la questione della violazione dei diritti umani contestualmente allo sfruttamento di molte popolazioni africane come avviene in Congo, dove sono i bambini a lavorare e ad essere sfruttati nelle anguste miniere di cobalto, le cui miniere sono state acquistate da colossi dell’industria cinese. Quindi, dietro l’apparente “purificazione ecologica planetaria” esistono grandi interessi, sfruttamento e business sia industriale che finanziario.
Il tutto in un momento di grave congiuntura sia politica che economica del Vecchio Continente.
La battaglia ecologica parte dagli Usa che oggi sono i più grandi produttori di petrolio
Un paradosso, per usare un eufemismo. Per capire da dove sia partita tutta questa rivoluzione bisogna sempre tornare negli Usa. Secondo un rapporto elaborato dall’Eia (Energy Information Administration), le previsioni per il 2019 attestano gli Stati Uniti come i maggiori produttori di petrolio del Pianeta. Il consumo di petrolio si attesta nel 2018 ad una percentuale di 2,4 per cento giornaliero e per il 2 per cento per il 2019. Una produzione di petrolio per gli Stati Uniti di 10,8milioni di barili giornalieri, con picchi di 11milioni. Un quadro globale che vede solo al terzo posto produttori l’Arabia Saudita con 10 milioni di barili dietro alla Russia.
Allora perché l’Epa, l’agenzia americana per la protezione dell’ambiente, è così rigida per quanto riguarda la riduzione delle emissioni nocive dai propulsori ad energia fossile? Quando è scoppiato lo scandalo del Dieselgate, fino al 2017, a capo dell’Empa sedeva Gina McCarthy, nominata direttamente dall’ex presidente americano Barack Obama, considerata come un’estremista ambientalista. La McCarthy è poi passata a capo dell’Agenzia governativa per l’ambiente, prima che venisse eletto l’attuale presidente degli Stati Uniti Donald Trump.
Un’altra figura di rilievo e autentica autorità mondiale contro la lotta delle emissioni nocive nell’atmosfera è Christiana Figueres, nata in Costa Rica, paese dove da anni esiste un braccio di ferro fra potenti concessionarie per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi e le associazioni ambientaliste locali. La Figueres, segretario esecutivo della Convenzione Onu e oggi responsabile di “Mission 2020”, è stata una delle protagoniste degli Accordi di Parigi del 2015.
Da questa analisi, per quanto complessa e dettagliata, emerge la sacrosanta consapevolezza di una convergenza di intenti per lavorare in modo armonico e sinergico affinché possa ridursi l’impatto ambientale e quindi contenere l’aumento della temperatura globale entro i 2 gradi centrigradi e restituire al Pianeta un ecosistema sostenibile. Sono molte le iniziative internazionali governative che partono dagli Stati Uniti nell’ottica di una riconversione del processo produttivo globale nel rispetto delle norme ambientali.
Ma è altrettanto percettibile la rigidità con la quale certe norme siano acquisite dai paesi europei senza tener conto del peso delle misure imposte, in un contesto antitetico rispetto a quello americano, di cui si fa effetivamente fatica a capire come mai vengano imposte regole così rigide sull’utilizzo dei carburanti fossili, quando poi gli stessi Sati Uniti incrementano l’estrazione di petrolio diventando il primo produttore al mondo. Se limitare l’impatto ecologico è una prerogativa importante per tutto il Pianeta, non è giusto che a pagare siano sempre e solo gli automobilisti e i cittadini italiani. I conti non tornano.
Massimo Manfregola – giornalista
27/10/2018
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Massimo Manfregola è ospite della diretta televisiva di Rai News24 del 18 giugno, ore 21.30, con l’edizione condotta da Emanuela Bonchino. La richiesta di misure cautelari della procura di Monaco di Baviera nei confronti dell’Ad di Audi, Rupert Stadler, riapre l’annoso caso del gruppo tedesco, coinvolto nel più grave scandalo industriale e commerciale di caratura mondiale.
Scoppia il caso «dieselgate» della Volkswagen e il dibattito arriva negli studi di Rai News 24 il 10 ottobre 2015 ore 20.30 con Massimo Manfregola e altri ospiti di primo piano.
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