Giornalismo alla sbarra: politica e magistratura soffocano la libertà di stampa
ROMA – Ci domandiamo sempre più spesso e con giustificata angoscia dove sia finito quel giornalismo nato come il cane da guardia della democrazia di uno Stato civile. In un Paese in caduta libera, dove i diritti dei cittadini sono sempre più spesso soffocati da vere e proprie imposizioni di una classe politica epicurea, ingiusta e inadeguata, la percezione di sofferenza e di insicurezza è dilagante. Il Cane da guardia, nato per la difesa della democrazia, è stato addomesticato e reso innocuo. È chiaro che per qualcuno la museruola non è sufficiente, anzi meglio la catena. Corta se è possibile. In un’Italia dove si allevano nuovi mostri, la difesa del cittadino è affidata alla buona sorte, sempre che la dea bendata sia disponibile, vista la massiccia richiesta di interventi in un periodo in cui persino i santi sono tormentati dalle disposizioni del suo supremo capo terreno.
Il governo dei «rottamatori» ci prende gusto. E senza remore guida bendato il caterpillar delle riforme, nella direzione in cui le macerie si sommano alla macerie di un passato beffardamente dignitoso quanto il presente. E così, non si è fatto a tempo a digerire la sinistra «intuizione» di un esponente di questo esecutivo, che ha inserito di soppiatto una «strategica» integrazione di cinque righe nella legge sulla riforma dell’Editoria – presentata da esponenti del Partito democratico e approvata senza alcun indugio alla Camera il 2 marzo e ora al vaglio al Senato – per indebolire la rappresentanza dei giornalisti in seno all’Ordine professionale, che riecco un nuovo «attacco» alla libertà di stampa.
Questa volta, il 3 maggio scorso una commissione del Senato italiano ha votato all’unaminità un progetto di modifica del codice penale che aumenterà le sanzioni penali per coloro che sono accusati di diffamazione contro membri della classe politica, della magistratura e della pubblica amministrazione.
Si tratta dell’articolo 3 del provvedimento (n.1932-A) che, a prima firma Doris Lo Moro del Pd (magistrato in aspettativa), approvato dalla commissione Giustizia di Palazzo Madama con il solo voto contrario del senatore di «Idea» Carlo Giovanardi che l’ha subito ribattezzata «norma pro Casta». L’articolo 3 del ddl, ora all’esame dell’Aula, introduce una nuova norma nel codice penale: l’articolo «339 bis» che di fatto aumenta le condanne «da un terzo alla metà» se il fatto «è commesso ai danni di un componente di un corpo politico, amministrativo o giudiziario a causa dell’adempimento del mandato, delle funzioni o del servizio».
Tutto questo significa che il cronista che diffama un politico o un magistrato rischia di finire in carcere con una pena aumentata da un terzo alla metà rispetto alla sanzione prevista se la persona diffamata fosse un comune cittadino. Infatti, la legge sulla stampa del 1948 prevede il carcere da uno a sei anni in caso diffamazione. Se la norma venisse approvata così com’è bisognerebbe aggiungere alla pena massima di base anche l’inasprimento pari alla metà della pena (6+3), ecco allora che si arriva a nove anni di reclusione per il reato di diffamazione.
Un palese atto intimidatorio nei confronti dei giornalisti che ha trovato una dura opposizione dell’Ordine dei giornalisti e della Fnsi, oltre che di nuovi movimenti organizzati, legati a nuclei di giornalisti indipendenti che hanno deciso di lottare contro le ingiustizie e le discriminazioni perpetrate contro la categoria di quel cospicuo fronte di professionisti «non protetti» dell’informazione che si identificano sotto lo slogan di «Inform “AZIONE” Libera». Fa specie che in tutta questa energica politica riformatrice del governo, giace nel cassetto un provvedimento del tutto opposto: quello messo a punto dall’attuale ministro Enrico Costa che il carcere per i cronisti punta invece ad eliminarlo.
Se pensiamo alla libertà di espressione sancita dall’articolo 10 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; al pluralismo informativo, garante della pluralità di punti di vista e opinioni, ci viene in mente anche alla definizione cardine dell’articolo 21 della nostra costituzione, in cui viene sancito che la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni, censure e soprattutto ad intimidazioni preventive.
Siamo all’apoteosi di una forma di privilegio di natura autoritaria che di fatto mette un bavaglio alla Stampa e a quel giornalismo che, scevro dalle logiche perverse del potere politico e finanziario, è l’unico strumento d’informazione «senza briglie» e quindi libero di indagare e denunciare questioni spesso scomode e debilitanti per l’architettura del potere centrale che incarna di fatto l’autorità della politica e della magistratura.
Tutto questo ci offre gli strumenti per certificare che in Italia la legge non è uguale per tutti, e che di fatto si delineano due categorie di cittadini, quelli di serie A e di serie B: i primi sono gli «intoccabili» quelli della casta della politica e della magistratura mentre alla seconda appartiene il resto del mondo.
Intanto i giornalisti e le principali organizzazioni sindacali della categoria alzano gli scudi e si preparano per scendere in piazza per protestare contro questa «riforma bavaglio» della stampa nazionale. Hanno organizzato un sit-in per mercoledì 15 giugno dalle 16 alle 19 nella piazza antistante la Camera (obelisco di Montecitorio). Nel documento allegato che potete consultare ci sono riportati tutti i dettagli dell’adesione alla manifestazione aperta a tutti.
Invito all adesione – spiegazioni
Massimo Manfregola – giornalista
1/6/2016
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