Roma, giornalisti in piazza: basta con il carcere per i reati a mezzo stampa
ROMA – L’Obelisco di Piazza Montecitorio a Roma è come un totem testimone del tempo che passa inesorabile. Una sentinella imperturbabile del Palazzo che è il simbolo della Capitale e delle Istituzioni, e che un tempo è stata la Curia Pontifica, il massimo organismo dell’amministrazione della giustizia della Santa Sede. Oggi è la sede della Camera dei deputati, luogo controverso a causa di una certa decadenza della rappresentanza politica nazionale il cui prestigio si è spesso macchiato di situazioni che contrastano con gli interessi del Paese. E pensare che un tempo, proprio nello stesso Palazzo del Bernini, i proventi delle attività della Curia erano in parte destinati all’Ospizio Apostolico dei poveri invalidi, così come ricorda ancora un bassorilievo con l’effigie del Salvatore e l’intestazione «Hospitii apostolici pauperum invalidorum», spostati sull’angolo destro della facciata rispetto al cortile dove originariamente erano posti.
Ma il preambolo che ho voluto incorniciare a cappello di questo articolo vuole offrire uno spunto di riflessione non solo sulla sulla magnificenza del complesso architettonico sito nel cuore nevralgico della Città Eterna ma soprattutto sulla simbologia storica che il luogo stesso rappresenta, ricco di richiami ideologici della nostra democrazia, visto che domani, alle 16 in punto, una rappresentanza di giornalisti del neo comitato «InformAZIONE Libera» si darà appuntamento per un sit-in proprio nella Piazza di Montecitorio per manifestare contro la pena detentiva per il reato a mezzo stampa dei giornalisti, che prevede non solo la sanzione pecuniaria, ma anche la possibilità di una richiesta risarcitoria di qualsiasi importo e, dulcis in fundo, il carcere fino a 6 anni, con la censura della “prova liberatoria” e con tutta una serie di negazioni di carattere processuale per il cronista che dovesse incorrere nelle spire della legge.
L’ANTEFATTO
A ravvivare il famigerato interesse sulla questione ci aveva pensato la senatrice del Partito democratico Doris Lo Moro (magistrato in aspettativa) la quale, lo scorso 3 maggio, aveva presentato un ddl di modifica del codice penale per le sanzioni penali per coloro che sono accusati di diffamazione contro i membri della classe politica, della magistratura e della pubblica amministrazione. In particolare si trattava dell’articolo 3 del provvedimento (n.1932-A), approvato dalla commissione Giustizia di Palazzo Madama, che introduceva una nuova norma nel codice penale: l’articolo «339 bis» che di fatto aumentava le condanne «da un terzo alla metà» se il fatto «è commesso ai danni di un componente di un corpo politico, amministrativo o giudiziario a causa dell’adempimento del mandato, delle funzioni o del servizio».
La levata di scudi dell’Ordine dei giornalisti e della Federazione nazionale della stampa italiana e soprattutto del nuovo comitato autonomo di giornalisti indipendenti «InformAZIONE Libera» – che ha saputo sensibilizzare con successo il problema con grande spirito di iniziativa sotto ogni latitudine sociale – hanno scongiurato che l’emendamento, che prevedeva la pena aumentata di un terzo alla metà rispetto alla sanzione prevista se la persona diffamata fosse un comune cittadino, potesse passare e quindi pesare fino ad una pena massima di 9 anni di reclusione per i giornalisti.
Infatti c’è stato un diètro frónt sulla norma “pro casta” sul contrasto al fenomeno delle intimidazioni ai danni degli amministratori locali al punto che il relatore del provvedimento Giuseppe Cucca, del Partito democratico, rendeva la seguente dichiarazione ufficiale: «per evitare altre strumentalizzazioni e polemiche infondate abbiamo deciso di togliere dal testo dell’articolo 3 anche il riferimento all’articolo 595 del codice penale e non vi sarà più alcun legame con il reato della diffamazione».
Ma il problema è stato risolto solo in parte, perché giace da oltre un anno in Senato la riforma sulla diffamazione che prevede l’abrograzione del carcere così come chiesto dalle istituzioni europee e sancito da numerose sentenze della Corte di Giustizia. Il primo firmatario di questa proposta è stato Enrico Costa, quando era viceministro della Giustizia (dal 28 gennaio guida il ministero degli Affari regionali e delle Autonomie sempre nell’alveo della maggioranza di governo sostenuta da Alfano) il quale auspicava già da tempo l’approvazione del testo di riforma che si rifà ad una legge fascista del codice penale dell’allora guardasigilli Alfredo Rocco. Il disegno di legge che prevede l’abrograzione della 47/48 in modo da eliminare la detenzione carceraria per i giornalisti (e che potete leggere nel documento allegato all’articolo) è stato presentato nel 2013. Dopo 4 rimpalli tra Camera e Senato, dal 3 luglio 2015 la proposta del parlamentare Enrico Costa si è arenata al Senato; assegnato alla stessa Commissione Giustizia che l’ha bloccato a partire dal 9 settembre 2015 e che ha invece proposto, in un altro disegno di legge, l’innalzamento della pena carceraria a 9 anni a condizione che ad essere diffamati fossero politici, magistrati o i membri della Pubblica amministrazione.
In contrasto con quando si vuol far credere, il tentativo di intimidire i giornalisti viene proprio dalla direzione opposta, con delle leggi “bavaglio” che incentivano consapevolmente la querela temeraria da parte di eventuali amministratori e politici delle istituzioni che operano in malafede e ai danni dello Stato e soprattutto nell’interesse dei cittadini.
IL CODICE ROCCO
Proprio un articolo a firma di Paolo Bracalini del 2012 apparso su il «Giornale.it» poneva l’accento sulla necessità di una profonda riforma penale nel nostro Paese, il cui impianto dell’intera architettura legislativa risale al Ventennio fascista, con tutte le contraddizioni e le insofferenze legate ad un sistema giuridico che appare in pieno conflitto con quelli che sono gli orientamenti democratici occidentali. Bracalini attaccava così il suo pezzo: Ruanda, Iran, Vietnam, Burundi, Corea del Nord, Turkmenistan, Sudan, Laos, Siria, e altri regimi. Sono 146 i giornalisti imprigionati nel mondo (dato raccolto da «Reporter sans Frontieres»), ma neanche uno tra le democrazie occidentali, in cui rientra anche l’Italia. Che però, nel suo codice penale, prevede la galera per i reati a mezzo stampa, dunque per i giornalisti. Un retaggio del passato, uno dei tanti del codice penale introdotto nel 1930 da Alfredo Rocco, ministro della Giustizia del governo Mussolini ed ispiratore delle leggi speciali dette «fascistissime».
In un paese come l’Italia in cui molte leggi sono spesso il pronunciamento di un combinato disposto fatto di spinte emotive ed esigenze elettorali, non è facile ricostruire le condizioni affinché esista una logica strutturata nell’interesse della più ampia democrazia e nella direzione in cui giustizia ed istituzioni siano al servizio della collettività invece che delle lobby di potere.
Mettere il bavaglio all’informazione, disseminando il lavoro giornalistico di trappole legislative, significa di fatto allentare l’attenzione sul controllo di quelli che sono gli aspetti legati alla gestione del patrimonio collettivo. I funzionari dello Stato – in quanto “servitori” dello stesso Stato – non possono godere di tutele o privilegi tali da renderli in qualche modo immuni dalle loro responsabilità rispetto ad un normale cittadino. Così come allo stesso tempo è assurdo che un cronista possa rischiare la galera per un reato di diffamazione aggravata nel caso in cui il suo lavoro di indagine dovesse arrivare ad un bivio: retrocedere o pubblicare.
LA MANIFESTAZIONE DI DOMANI
Per questo alla manifestazione di domani in Piazza Montecitorio a partire dallle ore 16, organizzata e promossa dal comitato «InformAZIONE Libera» che incorpora i rappresentanti di testate o organi di informazione come Nuova Opinone Italiana, Donna in Affari e della MasMan Communications, hanno già aderito diverse associazioni e organizzazioni di cittadini, da Libera alle Mille Donne per l’Italia, da Irideventi a Ram, da Flidon all’Associazione nazionale Giuseppe Garibaldi, all’Associazione Tutela dei diritti e solidarità e Codici, l’associazione “centro per i diritti del cittadino“. Si tratta di organizzazioni che da sempre sono impegnate nella lotta per la legalità e a tutela dei diritti di lavoratori e cittadini. Saranno al sit-in sotto l’obelisco di Montecitorio al fianco dei giornalisti. E per i giornalisti da notare l’adesione dell’Associazione Stampa Reggiana, di alcuni gruppi organizzati come Senza Bavaglio e di diversi Consiglieri nazionali dell’Ordine dei Giornalisti.
Partecipare è importante affinché la libertà di informare i cittadini possa essere un diritto condiviso inalienabile.
Massimo Manfregola – giornalista
14/6/2016
Copia della bozza del ddl per l’abrogazione della Legge n° 47/48:
Disegno di Legge fermo al Senato Commissione Giustizia
Uno stralcio della trasmissione Decimo Osservatorio dell’8 giugno 2016 in programma sull’emittente radiofonica romana TOP100 RTV condotta da Carmine D’Urso. Ospiti in studio Daniela Molina, direttore responsabile di «Donna in Affari.it»; Massimo Manfregola giornalista della MASMAN Communications e Antonio Di Giovanni, direttore responsabile di «Nuova Opinione Italiana». Fulcro della discussione l’emendamento presentato alla Commissione Giustizia del Senato per l’nasprimento della pena detentiva fino a 9 anni di carcere per quei giornalisti imputati di diffamazione contro politici, magistrati e rappresentanti della Pubblica amministrazione.
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