Dal fallimento della globalizzazione al referendum per cambiare la Costituzione italiana
ROMA – «La Repubblica ha settant’anni. Non c’è festa però, anzi tra gli italiani è diffusa l’insoddisfazione». È una citazione dello storico Agostino Giovagnoli, ripreso da un articolo di Andrea Riccardi sul «Corriere della Sera». Non è un caso se in questa frase si sottolinea la percezione di insicurezza di una percorso politico e sociale seminato di incognite e di delegittimazioni.
La politica ha finito per rinnegare il suo ruolo nobile di rappresentanza e di guida sociale, riconfigurando un sistema che appare beffardamente sempre più competitivo nella corsa ai privilegi dei suoi rappresentanti e sempre più lontano e distante dai veri problemi che affliggono il Paese.
Si è passati da una politica partecipata dei partiti della metà del Novecento del secolo scorso a quella autoreferenziata di una classe dirigente sostenuta, guidata e finanziata dalle lobby di potere e dalla moderna globalizzazione. La distanza fra l’attuale classe dirigente e il resto della società è siderale. Esiste grande confusione e senso di smarrimento nella popolazione e negli elettori che comprendono sempre meno quelli che sono i risvolti di logiche sociali fatte di numeri e di proiezioni economiche percentuali di società finanziarie che giocano sull’economia, traendo profitti sulla pelle dei risparmiatori, condizionando il destino di molti Paesi.
Persino l’idea di Europa unita, quella nata da autorevoli esponenti come De Gasperi e Spinelli, Schuman e Monnet, di Adenauer, Spaak e Bech, è stata tradita dai progetti speculativi delle banche che hanno messo al centro del progetto comunitario la finanza, con una moneta, l’euro, strumento di una logica perversa in un contesto politico ed economico troppo antitetico e variegato.
È la consapevole illusione del falso rinnovamento che attrae una politica tanto fragile quanto priva di creatività. Negli ultimi decenni i governi hanno costruito la loro credibilità sui falsi bilanci, sulle prospettive fallite, sul rilancio di un’economia spesso truffaldina e sulla refrattaria consapevolezza di “servire lo Stato” come se questi fosse un datore di lavoro a vita. Un approdo sicuro grazie al quale beneficiare incondizionatamente di stipendi sovradimesionati, oltre ad indennizzi e vitalizi da favola. Il tutto al cospetto di una società strangolata da tasse e balzelli inostenibili. Di una macchina della giustizia spesso latitante, lenta, corrotta e politicizzata.
Un quadro completamente nero più che a tinte fosche, sul quale aleggia un dilemma e una domanda sul quesito: è la stessa politica ad aver condizionato le sorti del Paese o viceversa? È certo che molto si è «rottamato» in questi anni, forse per esorcizzare un destino che sembrava segnato da anni di strisciante permissivismo ad ogni livello. La caduta del Muro di Berlino ha forse finito per condizionare il sistema di alcune democrazie del Mediterraneo che hanno interpretato l’evento di portata storica come un segnale per demolire progressivamente ogni resistenza e ogni tabù sulla opportunità di autonomia politica ed economica degli stati, aprendo le porte ad una globalizzazione sfrenata e senza regole.
Adesso anche gli intellettauli di «sinistra» più progressista fanno il “mea culpa”, e il nuovo libro di Federico Rampini, Il tradimento: Globalizzazione e immigrazione, le menzogne delle élite, ne è una prova. Il giornalista di «Repubblica» sostiene che la globalizzazione è fallita, e punta il dito anche sul giornalismo e sulla comunicazione che in questi anni hanno sostenuto e fatto da cassa di risonanza delle lobby.
In controtendenza rispetto a quanto si credeva, l’apertura delle frontiere ha creato miseria e diseguaglianze. L’ingerenza della politica estera americana sui mercati finanziari e sulle scelte economiche europeiste, nel corso dei due mandati della presidenza di Barack Obama, ha condizionato anche le politiche interne di alcuni Paesi come l’Italia.
Ci ritroviamo dunque ad essere partner – a due velocità – di una Europa fondata sulla leva monetaria. E la globalizzazione è uno dei due motivi principali, assieme a quello del mancato sviluppo tecnologico, della stagnazione salariale (ed economica) in cui versa il Bel Paese ormai da troppi anni a causa di una sindacalizzazione che ha assottigliato il potere contrattuale dei lavoratori.
In un contesto a dir poco claustofobico, il governo Renzi – il terzo in ordine di tempo concepito dal presidente emerito Giorgio Napolitano per assicurare continuità ai mecati e alle lobby finanziarie – si appresta a cambiare il testo della Costituzione, secondo una strategia volta a concentrare ogni potere legislativo e di rappresentanza politica territoriale nelle mani del governo. Nell’Italia lacerata da lotte politiche intestine, erosa dalla burocrazia, da una crescita da prefisso telefonico e da una percezione di ingiustizia e di insicurezza sempre più dilangante, si gioca sulle promesse per addomesticare un elettorato sempre più diffidente e indignato da questa classe dirigente inadeguata e inoperosa.
Riusciremo a salvarci da questa palude?
Massimo Manfregola – giornalista
24/11/2016
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