Terremoto e ricostruzione: sul futuro dell’Aquila solo poche luci e ancora molte ombre
ROMA – Il triste bilancio della conta degli sfortunati, vittime del terremoto che ha scosso il centro Italia, coincide con il pensiero rivolto alla città dell’Aquila e al sisma del 6 aprile del 2009. Dopo sette anni la faglia maledetta colpisce ancora e miete vittime e dolore. Come in un tragico copione che si ripete la televisione fagocita le immagini di un mondo che sembra essersi fermato. Frantumato sotto il peso di un mostro impietoso e invisibile, capace di piegare tutto e tutti. Amatrice, Accumoli, Arquata e la sua frazione di Pescara del Tronto, sono i paesi in cui il terremoto del 24 agosto ha interrotto la loro linfa vitale. Gli orologi pubblici dei luogi del sisma sono bloccati alle 3:36, e segnano il momento esatto in cui la catastrofe si è compiuta con una forza di magnitudo 6.0, sconquassando mura e strade dei centri abitati che sorgono quasi sulla linea di confine fra Lazio, Umbria, Marche e Abruzzo. Quello che rimane ora è un cumulo di macerie che segna il labile confine fra la vita e la morte.
Come avvenne all’Aquila sette anni orsono il sisma (che nel capoluogo abruzzese colpì la popolazione con una magnitudo di 6.3 della scala Richter) ha fatto tremare questa volta i paesi del centro Italia nel cuore della notte, con la tragica fatalità di scuotere il suolo quasi alla stessa ora rispetto al terremoto aquilano che fermò le lancette degli orologi alle 3:32. L’epicentro maledetto è stato registrato a 2 chilometri da Accumoli (Rieti). Ma la storia d’Italia registra una lunga lista nera di eventi luttuosi dovuti alla forza dei terremoti. Dal 1968 ad oggi, dal sisma del Belice, sono state circa 5mila le vittime delle scosse telluriche nel Belpaese: 2.914 solo quelle dell’Irpinia del 23 novembre del 1980 alle quali si aggiunsero anche 280mila sfollati. Una lunga scia di dolore e di sciagure con cui l’Italia è costretta a convivere a causa di un territorio che è fra i più alti per rischio sismico di tutto il Mediterraneo.
Ma è senza dubbio il periodo della ricostruzione quello più difficile del post-terremoto. Il finanziamento dei progetti edilizi e l’ombra del malaffare che si annida come un cancro fra le maglie delle burocrazia suona come una beffa nei confronti di coloro che hanno già perduto casa ed affetti, quando il ricordo della famigerata ricostruzione corre all’ultimo sisma d’Abruzzo. L’Aquila è l’esempio di una devastazione che a distanza di sette anni porta ancora i suoi segni tangibili e le sue cicatrici. L’aspetto della città è spettrale: strade vuote e intere zone del centro città in stato di abbandono o trasformate in un immenso cantiere. Camminare ed addentrarsi nelle piazze e nei quartieri della città abuzzese è un esercizio disagevole per il senso di vuoto che circonda gli edifici disabitati che una volta erano parte integrante del cuore pulsante della cittadina che sorge ai piedi del Gran Sasso e dove il monaco eremita Pietro da Morrone venne incoronato papa proprio all’Aquila nel 1294.
La storia urbanistica dell’Aquila affonda le sue radici nel Medioevo, secondo un disegno architettonico unico nel suo genere, nella maniera in cui l’agglomerato urbano dei singoli quartieri era l’unione naturale dei molti villaggi che in successione creavano il tessuto cittadino, secondo una precisa collocazione sistemica di una piazza, una chiesa e una fontana che assieme identificavano l’origine di ogni singolo quartiere. Già nell’antichità il capoluogo abruzzese aveva dovuto spremere tutte le risorse dalla sua popolazione per la ricostruzione della città, rasa al suolo nei terremoti del 13 dicembre del 1315, del 9 settembre del 1349 e in quello del 2 febbraio del 1703. E dopo travagliate situazioni l’Aquila, come l’Aaraba Fenice, seppe sempre risorgere dalla sue stesse ceneri. Oggi molte chiese ed edifici pubblici risultano gravemente danneggiati, mutilati e violentati nella loro bellezza originale e nei loro pregi di epoca barocca. Campanili ed edifici di grande lustro archiettetonico sono ingabbiati in austere strutture di metallo quasi fossero prigionieri di un destino infausto e senza soluzione.
Insomma la ricostruzione del centro storico della città non è avvenuta se non in una piccola parte, così come testimonia il nostro reportage fotografico che vi proponiamo, realizzato nel capoluogo abruzzese il 3 ottobre del 2015. La centralissima Piazza Duomo, con la Cattedrale di San Massimo e la Chiesa di Santa Maria del Suffragio detta delle Anime Sante, a poco più di sei anni dal sisma del 6 aprile del 2009 era ancora un desolato cantiere. In particolare la costruzione tardo-barocca della Chiesa del Suffragio, con la sua cupola realizzata nel 1805 dall’architetto romano Luigi Valadier, che a tutt’oggi risulta ancora avvolta nei teli del cantiere edile dell’appalto che è costato 7.815.334,77 euro, di cui gli aggiudicatari «Italianacostruzioni» di Roma e «Fratellinavarra» dell’Aquila, attraverso un accordo governativo Italia-Francia. A seguito dell’evento tellurico ci fu il collassamento di una parte della cupola, con la distruzione dell’anello di collegamento della lanterna in mattoni.
Sono ancora in sicurezza altri edifici di primo piano inclusi nella zona rossa della città come quelli che fanno quadrato sulla Piazza del Palazzo, che prende il suo nome dal Palazzo Margherita, un tempo dimora di Margherita d’Austria e sede del Comune, dove al centro si erge la statua di Sallustio, sormontata dalla Torre civica completamente imbracata assieme al Palazzo di Giustizia. Ma la serie degli edifici “incompiuti” è tristemente lunga quanto le desolate e abbandonate stradine del centro storico, dove una volta sorgevano i locali più in voga della movida locale. Per non parlare del Corso Vittorio Emanuele II, la strada principale della città aquilana, con il suo porticato che una volta era meta del passeggio e dello shopping locale, grazie a quelli che erano i numerosi esercizi commerciali, oggi tristemente chiusi per le conseguenze del sisma e, soprattutto, per mano di un ripristino dell’impianto urbano tanto lento quanto tormentato da inchieste giudiziarie e dalla cattiva gestione dei fondi miliardari messi a disposizione e di cui appena il 20 per cento del loro ammontare stanziato (circa 21miliardi di euro) è stato destinato alla ricostruzione.
Nulla a che vedere con la rinascita operosa che ha visto protagonisti gli amministratori friulani dopo il terremoto della magnitudo di 6.4 della scala Richter che colpì il 6 maggio del 1976 ben 45 comuni del Friuli fra cui Gemona e Artegna. Allora furono 989 le vittime, più di 100mila le persone sfollate, 18mila le case distrutte e 75mila quelle danneggiate. Gli amministratori locali diedero prova di grande dignità e senso civico, permettendo la ricostruzione di intere città e paesi distrutti dalla forza del sisma, grazie alla buona ed oculata gestione dei fondi destinati dal governo nazionale e regionale per la ricostruzione, stimati attorno ai 16-18 miliardi di euro complessivi. Dieci anni furono sufficienti per cancellare ogni traccia del sisma nei paesi colpiti dalla furia del terremoto. Un modello di efficienza e di serietà antitetica rispetto a quanto si è verificato in seguito con le successive emergenze nazionali.
Dopo gli aiuti europei, gli stanziamenti del governo e la raccolta solidale di denaro attraverso la partecipazione collettiva (che ha superato gli 11 milioni di euro), è lecito domandarsi quale sarà il futuro degli sfollati dell’ultimo terremoto che ha colpito paesi e regioni del centro Italia. Quali saranno i criteri e le iniziative per gestire il post-emergenza e quindi la ricostruzione dei paesi con tutta la loro storia e la loro identità originale. Il rischio che i proclami del governo si trasformino in una ennesima beffa per le popolazioni rimaste senza casa è reale. Anche perché i progetti e le emergenze gestite dagli ultimi governi che si sono succeduti non hanno offerto molte garanzie di serietà sul controllo della gestione e sullo spreco del denaro pubblico. Fino ad ora è sembrato che si sia ragionato, così com’è avvenuto all’Aquila, in termini esclusivamente affaristici e non certo secondo logiche urbanistiche. Gli appetiti commerciali di aziende e di amministratori senza scrupoli sono sempre in agguato. Lo sperpero di denaro pubblico in Italia si compone di una lunga e penosa lista di opere inutili, incompiute e di bassa qualità per quanto riguarda i requisiti di sicurezza delle stesse strutture edili. E i responsabili in questo Paese sono spesso rimasti impuniti.
Il rischio che nuove accise possano gravare ulteriormente sul peso fiscale dei cittadini non è da escludere, al punto che le promesse del premier Matteo Renzi, relativamente alla eliminazione delle tasse che gravano da decenni sul costo di un litro di carburante in Italia, sono rimaste lettera morta mentre gli automobilisti italiani continuano a pagare il 70 per cento di balzelli su ogni litro di benzina che finisce nel serbatoio della propria autovettura. Infatti la lunga lista di accise sulla benzina (se ne contano 12) per la gestione delle emergenze legate a calamità del passato, come la guerra di Etiopia del 1935, il finanziamento della crisi del canale di Suez del 1956, passando dall’alluvione di Firenze del 1966 al terremoto del Belice, del Friuli e dell’Irpinia, sono diventate strutturali, e pesano per un costo pari ad un valore di 0,72 centesimi di euro sul litro di benzina. Ma la cosa più assurda è il pagamento della “tassa sulla tassa”, vale a dire che sulle accise lo Stato applica pure la tassa sull’Iva del 22 per cento. In una situazione di palese criticità per il Paese ci auguriamo che il ministero dell’Econimia e Finanza non faccia scattare la famigerata clausola di salvaguardia per l’aumento automatico dell’Iva, situazione che potrebbe frenare ulteriormente l’economia dei paesi interessati dal sisma.
Nel momento in cui chiudiamo questo articolo i morti del terremoto che ha colpito Amatrice e altri paesi della zona sono saliti a 294. Sono invece 2.444 il numero degli sfollati che hanno avuto le loro case danneggiate o distrutte dalla scossa del 24 agosto. Intanto la procura di Rieti ha avviato un’inchiesta per verificare se i lavori di messa in sicurezza (costati 511mila euro) di alcuni edifici pubblici come la scuola di Amatrice, in parte crollata, avevavo i requisiti tecnici sufficienti a ridurre quello che i tecnici chiamano “vulnerabilità” degli edifici sottoposti a scosse telluriche. Sempre per non smentire quelli che sono i mancati controlli e la vigilanza di questo Paese super-burocratizzato, c’è da segnalare che nel mirino della Procura locale c’è la nuova scuola di Finale Emilia la quale, costruita dopo che il terremoto dell’Emilia del 2012 aveva reso inagibile il vecchio edificio, potrebbe essere stata costruita con cemento depotenziato e quindi inutilizzabile. È evidente che la morte dei 27 bambini della scuola di San Giuliano nel sisma che devastò il Molise nel 2002 non ha scosso le coscienze di quanti si approcciano ai problemi del Paese con fare individualista e delinquenziale. La storia continua.
Massimo Manfregola – giornalista
01/09/2016
Hanno collaborato: Maurizio Manieri e Amilcare Tiberti
Nella foto di copertina l’immagine suggestiva della Chiesa di San Pietro a Coppito immersa in un cantiere edile nel centro storico della città dell’Aquila. La facciata in pietra bianca ha resistito bene ai movimenti tellurici del 2009. La piazza antistante l’edificio è interamente intasata di detriti e di attrezzature edili, mentre si nota appena la gradinata in posizione asimmetrica rispetto all’area antistante che porta al piano rialzato, con funzione di sagrato.
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