Viaggio attraverso la storia vissuta di Giulio Borsari, il meccanico che fece grande la Ferrari
Una particolare pausa di riflessione attraverso le testimonianze e i racconti di un personaggio speciale che pur vivendo dietro le quinte del grande Circus della Formula Uno, con il suo lavoro e la sua dedizione ha contribuito a creare il mito e la leggenda del Cavallino Rampante in tutto il mondo
ROMA – «Nel giro della Formula Uno, i meccanici sono sempre stati insostituibili, ma la loro considerazione per loro non ha mai raggiunto grandi vertici. Sono Fermi al loro stipendio e alla loro dedizione che è sempre fuori moda». È un passaggio che ho estrapolato dal libro «La Ferrari in tuta» di Giulio Borsari, storico meccanico della Scuderia Ferrari fino agli anni 70, che scrisse con Cesare De Agostini e distribuito nelle edizioni del settimanale Autosprint nel 1982.
Rispolverare foto e ricordi di un’epoca che ha saputo rilanciare la tradizione e il genio italiano in tutto il mondo, in un momento di radicali cambiamenti per la Scuderia Ferrari e non solo, serve a colmare in parte il vuoto dei ricordi e soprattutto a comprendere meglio i cambiamenti e le analogie riconducibili al meravigioso mondo della Formula Uno. E anche se Giulio Borsari ci ha lasciati a fine marzo del 2013, rispolverare quelli che sono i frammenti di un vissuto tanto intenso quanto romantico e irrununciabile per coloro che si nutrono di questo mondo complesso e al tempo stesso sportivo, è come rivivere l’intensità di un’epoca che ha segnato in modo indelebile i destini di uomini e piloti.
L’odore di gomma bruciata e di olio ricinato che impregnavano le tute dei meccanici e dei piloti nell’epopea più ricca della passione sportiva delle corse automobilistiche, rivive nel “sogno” di Giulio Borsari e del suo sguardo penetrante e di uomo semplice e mite, protagonista silenzioso e paziente di un mondo che correva a 300 all’ora con l’eleganza e la semplicità di una gazzella. Emiliano purosangue di Montale, un paesino medievale sulle colline dell’Appennino Tosco-Emiliano fra Modena e Bologna, Giulio Borsari ha cavalcato la sua carriera di meccanico fra Maserati e Ferrari, in un mondo dove le copertine dei principali giornali sportivi riportavano i primi piani di Clay Ragazzoni, Lorenzo Bandini, John Surtees, e dell’immancabile Enzo Ferrari.
C’è un altro passaggio evocativo nella raccolta di ricordi ed episodi vissuti da Giulio Borsari, utile a comporre il puzzle della sua carriera di uomo e di professionista ineguagliabile: “Il Capo (Enzo Ferrari) propone, i tecnici progettano, i piloti guidano; ma sono loro (i piloti) che chiudono il circolo. Sono loro i delegati ad evitare che le banalità sciupino tutto il lavoro“.
Ed è a proposito di lavoro, quello spesso estenuante dei meccanici di Formula Uno, senza orario con poche pause e in qualsiasi condizione, quando per necessità contingenti era necessario ricostruire una vettura per consentire al pilota di partecipare alla gara. Ed è qui che mi viene in mente l’impresa di Mario Andretti del 1971, nel GP non titolato dell’Ontario sull’allora nuovissimo motor speedway di Questor, in California. Due gare in programma di 32 giri ciascuna – a causa dei serbatoi insufficienti della Formula Uno – in un appuntamento che, in modo anomalo, vedeva in pista vetture di Formula Uno e quelle di Formula 5000 statunitense.
Mario Andretti, che in quella gara faceva coppia nella Scuderia Ferrari con Jacky Ickx entrambi con la 312B, si rese protagonista nelle prove libere del mercoledì di un disastroso incidente, al punto che la sua monoposto venne recuperata completamente accortocciata. Con la stessa Ferrari, “Piedone” Andretti era stato reduce della sua prima vittoria in Formula Uno nel GP del Sud Africa. Ma le condizioni della vettura e la mancanza di un muletto disponibile, mettevano in in crisi il team del Cavallino rampante che non disponeva né di ricambi né di pezzi della corrozzeria da sostituire alla 312 semidistrutta.
Per la squadra Ferrari quella di consentire al pilota di origine italiana di prendere il via per le qualificazioni del sabato era un’impresa a dir poco titanica. A vedere le condizioni della monoposto molti avrebbero gettato la spugna. Ma nella mitica scuderia Ferrari nulla era impossibile, quando talento e passione diventavano l’ingrediente miracoloso per firmare le grandi imprese. A Giulio Borsari, assieme con i colleghi Castelli, Chiodi e Levoni, tocca il compito di ridare vita ad un ammasso di ferraglia informe. La logistica dell’epoca e soprattutto l’organizzazione di un team di Formula Uno erano piuttosto alla buona se paragonati con quelli attualmente in circolazione persino nelle formule minori. L’unico vero bagaglio tecnico che una squadra poteva vantare era quello delle risorse umane.
Per un bravo meccanico, un cannello per saldature, era l’equivalente di un coltellino Victorinox per un esploratore. In quella occasione Giulio Borsari e il suo mitico staff di meccanici in tuta blu, hanno dato prova che una cassetta di attrezzi, filo di ferro, qualche punto di saldatura per fissare staffe e radiatori, fiamma ossidriga per plasmare il metallo e riportarlo alla sua forma originale, erano sufficienti per trasformare quello che rimaneva di un ammasso di tubi e lamiere scorticate in una monoposto da Gran Premio. In poco più di 48 ore la Ferrari 312 B di Mario Andretti era pronta per scendere in pista nelle prove di qualificazione del sabato. L’insieme della vettura era nuovamente riconoscibile, ma per la rifinitura dei dettagli – la cosa più importante in un auto da corsa – i meccanici capitanati da Giulio Borsari dovevano attingere ancora una volta dal loro bagaglio di esperienze. Bisognava rifare l’assetto, la convergenza, controllare il camber e il caster delle ruote anteriori, le altezze da terra. Insomma non proprio dettagli trascurabili. A disposizione non c’era nessun piano di riscontro sul quale adagiare la monoposto per le misurazioni. Gli unici riferimenti disponibili erano la pavimentazione dei box e la vettura integra di Ickx. Doveva bastare. E così, armati di calibro, asta metrica, filo di nylon e spessori, Giulio Borsari oltre a ridare nuova vita alla monoposto che Andretti avrebbe portato nuovamente in pista, ha donato alla riesumata monoposto pure un’anima e una coscienza nuova di zecca. Solo un affondo di acceleratore prima di prendere la pista, per capire che tutto stava assieme all’unisono, era indispensabile per la consapevolezza di avercela fatta. Se il primo miracolo Mario Andretti lo concretizza con il 12° tempo in griglia su 30 partenti (più tre riserve), con il suo compagno di scuderia Icks che è terzo, alle spalle del poleman Stewart (Tyrrel) e di Amon (Matra), gli altri due vengono “canonizzati” nelle due gare, che il pilota vince con un talento che ripaga le fatiche dei suoi meccanici in una trasferta divenuta leggendaria per la Scuderia Ferrari e per i suoi uomini. Un’impresa, quella di Giulio Borsari, che gli valse la targa di “Mechanic of the Race“, in un giorno in cui i sacrifici dei meccanici, l’abilità delle loro mani, delle loro notti insonni, hanno contribuito a rendere una gara di Formula Uno (non titolata per il Mondiale) in una pagina di storia dell’automobilismo sportivo di tutti i tempi.
Ma nel libro di Borsari c’è spazio anche per per certi momenti in cui gli errori potevano o avrebbero potuto decidere l’infausto destino di un pilota. Scrive Giulio Borasari in una sua autocritica: “Gli errori: ne ho commessi certamente anch’io, ma in due ho fatto sfiorare al pilota la tragedia. John Surtees e Jacky Ickx sono i due uomini che un errore di Giulio Borsari ha fatto arrivare ad un passo dall’aldilà“.
I 17 anni vissuti alla Scuderia Ferrari (dal 1962 al 1979), dopo averne passati dieci in Maserati con un titolo di iridato di Formula Uno conquistato nel 1957 con Juan Manuel Fangio, hanno consentito a Giulio Borsari di osservare dettagli e sfumature di un ambiente spesso “blindato” ai non addetti ai lavori. Con riferimento ai piloti che si sono avvicendati alla corte della Ferrari, Borsari scriveva: “Dalla luna di miele al divorzio passano in genere dai due ai quattro anni. Questa è la parabola normale tracciata dai piloti che approdano a Maranello. Alla fine il grande mare calmo si è rivelato un oceano di difficile navigazione. Questo mandava in bestia il Commendatore che durante quei colloqui si sentiva come Giove al quale avessero tolto i fulmini!“.
Ne aveva anche per Luca Cordero di Montezemolo,
che approdò in Ferrari nel 1973 come assistente di Enzo Ferrari e responsabile della Gestione sportiva, vincendo per tre anni consecutivi il titolo Mondiale Costruttori (dal 1975 al 1977) e quello Piloti con Niki Lauda nel 1975 e 1977: ” Di Luca di Montezemolo ho sempre in mente lo strano modo di fare che, almeno all’inizio, lo portava ad azioni di cui lì per lì non mi rendevo conto. Me lo ricordo al Nuerburgring, seduto per terra ai box ad aspettare le macchine. Così giovane, così mnuto nel fisico, sembrava un bambino appena un po’ cresciuto. Questo non vuol dire che non avesse la sua personalità, la sua ‘voce’. Ne sa qualcosa Regazzoni, che più di una volta, alla sera, si è visto obbligare ad una inappellabile… ritirata proprio da Luca di Montezemolo“.
Poi c’è il momento in cui le appendici alari apparvero per la prima volta in Formula Uno, a segnare l’inizio di una nuova svolta per l’automobilismo da competizione. Era il 1968 quando ebbe inizio una sorta di rivoluzione, la Scuderia Ferrari sulla 312 F1-68 schirava i piloti Amon, de Adamich e Ickx.
Fu un anno frustrante per la Scuderia del Cavallino, che perse il mondiale pur conquistando con Amon otto partenze in prima fila e tre pole position, di cui una a Spa-Francorchamps, nel GP del Belgio, e una vittoria nel piovoso GP di Francia a Rouens con Ickx : “Fu la Rivoluzione di Giugno, perché al GP del Belgio, in calendario il 9 giugno 1968, ci presentammo per la prima volta con gli alettoni, subito imitati dalle altre squadre, in un modo che da principio erano soluzioni davvero rudimentali, come l’alettone che bettezzammo ‘tipo Zandwoort’, e fu il primo successo di Kiki Guglielminetti, detto il ‘Re delle Ali’. Centauro di una certa levatura (vinse un titolo mondiale con la Guzzi 250) si considera un grande appassionato ed intenditore di aeromodelli”.
Nel 1988, precisamente il 14 luglio, Giulio Borsari decide di fondare il Club Meccanici Anziani della Formula Uno, l’associazione che radunava tutti i meccanici che avevavo avuto esperienze nella massima formula per alemeno 10 anni di attività nel Reparto corse e uno spessore di vita vissuta lungo almeno mezzo secolo. Il legame più forte che ebbe con un pilota di Formula Uno fu con il grande Clay Regazzoni, con il quale condivise l’amarezza del Mondiale perso nell’ottobre del 1974 a Watkins Glen, quando nella disputa decisiva con la McLaren di Emeson Fittipalidi, la monoposto di Clay diventa inguidabile per via di un assetto che non riesce a tenere il passo del suo antagonista brasiliano. Il mondiale sfuma inesorabilmente. Clay la prende con filosofia, più per mostrare rispetto e devozione nei confronti del suo meccanico che per esorcizzare la delusione e dice a Borsari: «Giulio, vinceremo un’altra volta». Ma la risposta è istantanea e fulminea e non lascia dubbi sulla situazione che da lì in poi si delinea all’orizzonte come un presagio: «Clay, tu il titolo non lo vinci più». Infatti la Scuderia Ferrari a partire dal 1975 avrebbe puntato tutto su Niki Lauda.
Una delle ultime apparizioni ufficiali di Giulio Borsari “in tuta” in qualità di capo-meccanico onorario della Ferrari 312-T4 è stata a Fiorano nel 2012, in occasione della 30° anniversario della scomparsa di Gilles Villeneuve.
Massimo Manfregola
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